Prosecco: la fine di un’era?
Prosecco: la fine di un’era?


Prosecco: la fine di un’era?

Chiudete gli occhi e provate ad immaginare un mondo senza Prosecco o, perlomeno, senza più la parola che lo identifica.

Sembra impossibile, eppure si tratta di uno scenario che non è, tutto sommato, così impossibile a realizzarsi nel prossimo futuro. Tutto è partito da una puntata della trasmissione Report andata in onda nel novembre 2016.

Prosecco: la polemica sul nome e sui pesticidi

438.698.000 bottiglie acquistate e 2,1 miliardi di fatturato l’anno: questi i numeri del Prosecco che coincidono, in pratica, con circa 1 milione di bottiglie stappate ogni giorno.

Dati da capogiro, dietro i quali si intuisce quanto questa realtà tutta italiana sia diventata imponente non solo a livello nazionale, ma mondiale.

D’altronde, si tratta di una bontà che, con la sua tipica colorazione giallo paglierino e il suo sapore fresco e brioso, è praticamente la regina delle nostre tavole, soprattutto in giornate ed eventi importanti, da anni rappresentativa del vino italiano più venduto nel mondo.

Eppure, dietro questi numeri da capogiro si nasconderebbero delle insidie.

Gli unici vini che possono vantare l’etichetta “Prosecco” (ed essere venduti come tali) sono quelli prodotti in Veneto e nel Friuli-Venezia Giulia, tutti ottenuti dall’uva Glera.

L’inghippo è questo: la loro denominazione DOC e DOCG non dipende dal tipo di vigneto da cui provengono, ma dal nome di una frazione di Trieste (Prosecco, appunto) dove, paradossalmente, non avviene alcuna coltura.

Fino al 2009 esisteva solo il prosecco DOC Conegliano Valdobbiadene – assicura Bernardo Iovine, autore del servizio di Report andato in onda –; il presidente Saragat, ottimo intenditore di vini, aveva concesso la denominazione nel 1969 e nel decreto specificava: ‘Il vino prosecco di Conegliano Valdobbiadene deve essere ottenuto dalle uve provenienti dal vitigno Prosecco’. Nel 2008 l’Europa dichiara che la DOC è una denominazione di luogo, non di vitigno, e allora qualcuno scopre che c’è una frazione di Trieste che si chiama Prosecco“.

Insomma, si sarebbe trattato di un’operazione strategica per permettere alle aree interessate di continuare a produrre il Prosecco salvaguardardone l’esclusiva; esclusiva da cui è rimasto tagliato fuori proprio l’omonima frazione triestina!

Ed è stata l’Associazione Agricoltori locale a farsi avanti per chiedere giustizia. “La cosa che faremo è un’azione unitaria per chiedere una royalties royalty – ha detto Edi Bukavec, direttore dell’associazione –. Date un centesimo a bottiglia visto che la politica, la Regione, il Ministero, nessuno vuole pagare niente. Facciamo tutti un sacrificio e offriamo una auto-tassazione per lo sviluppo dell’agricoltura e della viticoltura in provincia di Trieste. Se anche questa proposta non dovesse andare in porto, allora muoia Sansone con tutti i filistei, no?“.

Ma tra i guadagni dei produttori e la piccola frazione che non ne trae nemmeno un centesimo c’è di più.

Le aree di coltura intensiva in Veneto e Friuli-Venezia Giulia, infatti, si stanno espandendo e, con esse, i trattamenti pesticidi annuali: i vigneti si estendono ormai a perdita d’occhio e sono a ridosso di strade pubbliche e abitazioni cittadine. Un’abitante della zona ha riferito ai microfoni di Report: “Qui ci sono quattro proprietari che trattano in quattro giorni diversi, quindi noi dovremmo tenere dentro i bambini per quattro giorni a settimana, non aprire le finestre per quattro giorni a settimana, non stendere il bucato per quattro giorni a settimana, perché – come voi sentite – hanno trattato ieri e qua c’è comunque odore”.

Si è parlato addirittura di patologie riconducibili a questo scenario, ma le istituzioni negano qualsiasi ipotesi di pericolo reale per la salute.

E allora il suggerimento finale di quell’ormai lontano 2016 appariva unico e imprescindibile: convertirsi al bio.

Da lì ne è passata di acqua sotto i ponti e Ferrari, ad esempio, aveva già immediatamente riconvertito il 50% dei produttori del Franciacorta.

Ma la battaglia non è finita qui.

Ultimi aggiornamenti

Risale a luglio 2020 la notizia di un probabile “scisma” che riguarderebbe il Conegliano Valdobbiadene Docg; in sostanza, c’è chi vorrebbe renderlo autonomo dal resto della produzione e della commercializzazione, senza fare più riferimento nemmeno al nome “Prosecco”.

La richiesta è partita dalla Confraternita di Valdobbiadene, nata nel 1946 proprio per promuovere la diffusione e la conoscenza del Conegliano-Valdobbiadene, che ha diramato un’interpellanza a tutti i 2640 appartenenti alla filiera produttiva della denominazione: “Che il territorio della denominazione ‘Conegliano Valdobbiadene Docg’ sia definito da confini ben delineati – ha insistito –, non sovrapposto ad altri territori o altre denominazioni, fatta eccezione per la denominazione ‘Colli di Conegliano‘. Che la denominazione ‘Conegliano Valdobbiadene Docg’ sia autonoma – ha proseguito – e non parte del sistema ProseccoInfine, che la denominazione ‘Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg’ sia modificata in ‘Conegliano Valdobbiadene Docg’, senza nessun riferimento alla denominazione prosecco”.

Bisognerà capire se l’istanza verrà sottoscritta dai produttori, che possono o meno dichiararsi concordi con le idee espresse nell’interpellanza.

Anche qui c’era stata una scintilla: un’azienda di Valdobbiadene aveva rimosso da etichette e confezioni, da ben 2 anni, la dicitura “Prosecco”, conservando solo quella territoriale; “per fugare ogni confusione”, aveva dichiarato.

D’altro canto, contemporanea era stata anche la notizia del blocco del rosé per mano dell’Associazione Agricoltori di Trieste, decisa a farsi rispettare interrompendo l’iter di approvazione del disciplinare: molti imprenditori trevigiani avevano già annunciato il sold out per le nuove bottiglie rosate, ma le botti sono rimaste piene poiché il meccanismo è stato fermato proprio durante l’attesa dei codici per l’imbottigliamento.

Insomma, è ormai da anni che questi malumori risuonano all’interno di consorzi ed associati.

Così, la patata bollente è stata passata alla Regione Veneto, in attesa che sistemi la situazione (sorvolando sul fatto che la faccenda non sarebbe di sua competenza).

Resta l’evidenza che rinunciare al nome “Prosecco” sarebbe un suicidio commerciale, poiché si tratta del vino più conosciuto e bevuto al mondo: le cantine si renderebbero immediatamente conto del conseguente tracollo che condizionerebbe pesantemente i loro bilanci.

Probabilmente, come in tutte le cose, l’ideale sarebbe un compromesso tra tutte le parti: le stesse vigne dovrebbero essere maggiormente curate da parte dei Presidenti dei Consorzi e dalle autorità regionali, anche perché ce ne sono di abbandonate che non giovano né all’estetica né all’attribuzione della qualifica Patrimonio Unesco tanto orgogliosamente conquistata.

Sembra impossibile, eppure si tratta di uno scenario che non è, tutto sommato, così impossibile a realizzarsi nel prossimo futuro. Tutto è partito da una puntata della trasmissione Report andata in onda nel novembre 2016.
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